Arrivano nel mondo del lavoro i ragazzi della generazione z (i nati a cavallo del 2000).

I manager che li selezionano e gestiscono hanno mediamente dieci/vent’anni più di loro. Non è una differenza banale. C’ è una differenza culturale importante e le aziende, soprattutto quelle strutturate e con brand riconosciuti dal mercato, se ne stanno accorgendo a proprie spese. Infatti non basta più pagare bene e promettere certezze di carriera. I ragazzi della generazione z sono diversi: se non li “sai prendere” non accettano la tua offerta di lavoro, oppure ti mollano anche solo dopo pochi mesi di collaborazione.

Recentemente in Sparring abbiamo organizzato su questo tema un workshop con i responsabili HR di tre aziende molto prestigiose che stanno accettando la sfida di un nuovo approccio con la generazione Z. Ne sono emersi molti elementi interessanti.

Intanto dove nasce la differenza di visione del lavoro tra un quarantenne e un ventenne neolaureato della generazione Z?

Gli over 40 sono ancora in parte inconsapevolmente legati ad una interpretazione del lavoro come sacrificio, come fatica (non a caso nel dialetto siciliano, ma anche in quello piemontese il lavoro è un “travaglio”, in Puglia il lavoro viene letteralmente tradotto con la parola “fatica”). Questa percezione ha dei risvolti molto concreti: i giovani sul lavoro sono i più “freschi” e quindi devono “farsi le ossa”, lavorando più degli altri (non puoi andare a casa prima del tuo capo), dedicandosi al “lavoro sporco”, alle mansioni più logoranti sia dal punto di vista fisico che mentale. In questo schema rivediamo l’antico rapporto tra il “maestro di bottega” e il suo “garzone”, l’apprendista.

I giovani della generazione Z rispettano questa visione ma la vivono con disagio e non la capiscono fino in fondo: “Perché devo andar via dopo il mio capo? Perché il mio capo può fare smartworking e io no? Perché il mio capo si prende i progetti divertenti e io mi devo annoiare con le mansioni più ripetitive e noiose? Perché il mio capo conosce il motivo di tutto ciò che accade nella nostra organizzazione e io ne vengo tenuto all’oscuro?”

Non siamo di fronte ad una generazione di ribelli, non c’è un’intenzione di rivolta contro l’autorità. Semplicemente c’è una visione molto pragmatica e funzionale del lavoro: Il lavoro è molto importante per realizzarmi, per avere autonomia e libertà, ma non è necessariamente il centro della mia vita. Inoltre per impegnarmi ho bisogno di stimoli, di sfide, di essere innamorato di ciò che faccio, altrimenti meglio mollare e continuare la ricerca di un’altra soluzione. E’ da questa visione che nascono tanti rifiuti di offerte di lavoro o tanti abbandoni imprevisti e sorprendenti.

Per non perdere talenti le aziende hanno bisogno di rivedere sostanzialmente tre processi:

  1. Il processo di recruiting. Nel percorso di selezione il giovane candidato ha una fotografia di ciò che gli accadrà in azienda una volta assunto. E’ come l’assaggio di un prodotto. Se nel colloquio trovo qualcuno che si pone nei miei confronti con un approccio che sta a metà tra il giudice e il professore antipatico, che non mi dice niente della sua vita personale, che non mi chiede niente della mia vita personale, che mi avverte che “qui si lavora duro”, che mi motiva con frasi del tipo “un giorno se avrai lavorato bene sarai dove sono io” e precisa che “lo smartworking qui bisogna guadagnarselo con la fiducia”, allora avrò ottime ragioni per cercare altre opportunità. Il processo di selezione adatto ai ragazzi della generazione z deve essere divertente, trasparente, dialogante, un’esperienza di confronto umano in cui si condividono esperienze di vita oltre che esperienze lavorative.
  2. Il processo di onboarding. Un tempo il “garzone di bottega” nelle prime settimane o addirittura nei primi mesi doveva dedicarsi alla ripetizione di compiti semplici e routinari, in modo da impadronirsene perfettamente. Solo dopo poteva essere coinvolto in attività più stimolanti e creative. Tutti abbiamo odiato la noia della ripetizione nei primi mesi di lavoro ma i ragazzi della Generazione Z manifestano un’intolleranza radicale per questo tipo di approccio. Sono abituati ad un universo di gratificazioni più immediate. Per “salire a bordo” hanno bisogno di innamorarsi di ciò che fanno, di divertirsi, di sentirsi coinvolti da subito realmente in un progetto. Lo sanno bene le aziende che si ritrovano con dimissioni inattese e premature, incomprensibili agli occhi di altre generazioni: – Ma come! Avevi appena cominciato e non ti piace più? Con un contratto diverso ti fermeresti? – – No, no, non è una questione di contratto. –
  3. Il processo di restituzione dei feedback. Una volta si diceva “Vai avanti, se non intervengo vuol dire che va tutto bene.” Oggi questo approccio è inaccettabile. I giovani chiedono feedback continui e puntuali sul proprio operato e rivendicano anche il diritto di poter offrire i loro feedback sull’operato del capo, dei colleghi, e più in generale sul funzionamento della macchina aziendale. Un neoinserito che lavora al buio, con feedback sporadici e generici sta senz’altro cercando un altro lavoro.
  4. Il sistema di reward. Un mio collega si è lasciato sfilare un giovanissimo talento da un’azienda concorrente perché quest’ultima è riuscita ad inserire nel pacchetto retributivo del candidato …..un cavallo, oggetto della passione di questo ragazzo. Quest’aneddoto bizzarro esemplifica perfettamente che soldi e stabilità del contratto non bastano più. La generazione Z inquadra il proprio pacchetto retributivo in un contesto ampio di valutazione della qualità della vita. Inutile dire che flessibilità e smart working diventano dei must non negoziabili.

In Sparring supportiamo le aziende che vogliono rivedere le loro strategie di recruiting e/o di gestione del talento. Se pensi che anche nella tua azienda si possa migliorare la selezione e la gestione dei giovani talenti contattaci

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