Nelle grandi organizzazioni aziendali l’attenzione alla scelta delle “parole giuste” è sempre stata molto elevata, ma oggi assume tratti maniacali. Fino a qualche tempo fa si avvertiva la necessità di misurare le parole soprattutto per il timore che una frase infelice potesse scatenare azioni legali o vertenze sindacali. Oggi siamo oltre quel paradigma. In quella che è stata definita Società del piagnisteo (cfr. “La cultura del Piagnisteo, la saga del politicamente corretto”, Robert Hughes, Adelphi Edizioni), la società per intenderci in cui non si può bocciare a scuola e in cui tutti ci sentiamo discriminati per qualcosa, le aziende sono consapevoli che la propria reputazione tutti i giorni danza su un sottilissimo filo.

Nessuno deve urtare la suscettibilità di nessuno e quindi il linguaggio deve essere sempre “inclusivo” e “non giudicante”. In linea teorica ovviamente nulla da obiettare. Siccome scrivere a un collaboratore che sta facendo male potrebbe deprimerlo dovremo scrivere “che i suoi obiettivi sono stati parzialmente raggiunti”. Siccome scrivere che c’è stato uno “scontro” tra team potrebbe rappresentare uno scenario di ostilità e scarso rispetto reciproco la parola “scontro” andrà sostituita con “confronto”. Siccome parlare di “errori” potrebbe risultare offensivo nei confronti di chi non è stato messo nelle condizioni di operare al meglio, è consigliabile sostituire “errori” con “punti di attenzione”.

L’elenco di esempi potrebbe proseguire per chilometri. La domanda che ci dobbiamo porre è “Questa ipocrisia linguistica ci fa bene?” Probabilmente sì. Nella società del piagnisteo non ci sono alternative evidentemente. Tuttavia è bene essere consapevoli di una serie di criticità che inevitabilmente vengono a galla nel mondo del “politicamente corretto aziendale”:

  1. Le verità tendono ad essere diluite o aggirate attraverso formule soft. Questa dinamica può condurre facilmente a equivoci e incomprensioni che non aiutano le persone nel loro sviluppo professionale. Se io fossi convinto di essere un bravissimo project manager e ricevessi dal mio capo un feedback del tipo “Hai fatto leva sulle esperienze del team per rafforzare la tua leadership” sarei sicuramente contento e contestualmente sarei portato a trascurare un’altra possibile interpretazione di quelle parole (“Non hai dimostrato abbastanza leadership e ti sei dovuto far aiutare”). Se l’intenzione del mio capo fosse stata in effetti quella di segnalarmi un deficit di leadership io non l’avrei colta e dunque non avrei potuto intraprendere un percorso di miglioramento.
  2. Un’organizzazione in cui tutto ciò che accade è smussato e ammorbidito offre a chi ci lavora una rappresentazione alterata della realtà, che stride con la percezione delle persone. Da qui nasce la sensazione di fastidiosa manipolazione, di una cultura aziendale non autentica e non trasparente. Pensiamo a quei contesti in cui tutti vincono, tutti sono bravi, tutti accedono ad un premio perché tutti in base a qualche criterio devono essere valorizzati. Di fronte a queste situazioni le persone di solito reagiscono con fastidio. Sentono di essere in un contesto “finto”.
  3. Nel mondo del politicamente corretto le persone sono indotte a gestire le criticità sfumando i toni, illudendosi in questo modo che i potenziali conflitti si possano spegnere mettendoci sopra il coperchio delle “belle parole”. Sappiamo tutti per esperienza che non tutti i conflitti si disinnescano con un giro di parole. Spesso invece silenziarli “con le buone maniere” significa renderli più infiammati quando inesorabilmente verranno a galla. Se un collega si comporta molto male con me io gli descrivo questa situazione dicendogli “credo sia nel reciproco interesse superare alcune recenti incomprensioni” sto smorzando un potenziale conflitto, ma sto anche allontanando la possibilità di un vero chiarimento. Se il dissidio continuerà a covare sotto la cenere quando riemergerà sarà ingestibile e io e il collega rimpiangeremo di non essercele dette chiaramente al momento opportuno.
  4. Trovare le parole “politicamente corrette” per spiegarsi con colleghi e clienti può portare via molto tempo, probabilmente troppo tempo. In alcune aziende particolarmente strutturate i manager più importanti sono costretti a fare i correttori di bozze. Passano le giornate a rivedere le mail degli altri alla ricerca delle parole giuste. Non si tratta soltanto di un’inefficienza. C’è addirittura il rischio che questa competenza manageriale prevalga sulle altre, con il paradosso che un’azienda possa preferire un manager “modello ufficio stampa” ad un manager magari molto più preparato tecnicamente ma meno incline al politicamente corretto. Sarebbe come dire che il saper raccontare conta più del saper fare.