Nell’era degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale la formazione delle persone conta sempre di più. Sembra un paradosso ma è quello che ci confermano senza eccezioni tutti i manager che incontriamo.

Ugo Canonico riveste il ruolo di HR & Organization Senior Manager in Hera, una delle più note multiutility nazionali, quotata in Borsa dal 2003 (oltre 9.000 dipendenti, 7,4 miliardi di fatturato nel 2019, 4,3 milioni di cittadini serviti in oltre 330 comuni distribuiti principalmente in Emilia-Romagna, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Marche).

Con lui abbiamo parlato di lavoro smart, competenze e sviluppo delle risorse umane. 

Ugo, viviamo un momento storico decisivo per ripensare l’ecosistema delle competenze professionali. La riqualificazione del capitale umano sarà uno degli elementi essenziali del Recovery Fund. Concretamente significherà mettere al centro dello sviluppo economico la formazione delle persone. Le grandi aziende hanno investito molto negli ultimi anni su questo fronte. In Hera come avete affrontato questa sfida?

Da sempre la formazione riveste per il Gruppo Hera un ruolo fondamentale come fattore indispensabile per la crescita e lo sviluppo professionale delle persone. Concretamente questo si traduce in un investimento rilevante che ci consente di erogare una media complessiva annuale di circa 30 ore pro capite di formazione (26 ore nel 2020 nonostante i vincoli operativi legati al COVID).

La nostra strategia HR ha come obiettivo quello di sviluppare un’organizzazione agile orientata all’apprendimento continuo ed in grado di tradurre rapidamente l’apprendimento in azione. Una sfida enorme considerando che parliamo di più di 9000 persone che appartengono ad aree di business differenti e, quindi, a famiglie professionali con caratteristiche ben specifiche.

Quest’anno avete lanciato una vostra “Netflix della formazione”. In cosa consiste?

Esatto, abbiamo appena implementata MyAcademy, la nuova piattaforma di formazione online del Gruppo. Si tratta di un ambiente digitale moderno che consentirà a tutti i dipendenti del Gruppo di personalizzare costantemente la propria esperienza di apprendimento.

Il funzionamento di MyAcademy replica quello di piattaforme che abbiamo imparato a conoscere molto bene nella nostra quotidianità: velocità d’uso, personalizzazione, logiche di engagement e gamification, il tutto orientato a garantire la migliore esperienza di apprendimento possibile a tutti i nostri colleghi.  

Mi sembra una piccola grande rivoluzione. La formazione nelle aziende tradizionali viene sempre “subita” dal lavoratore, che spesso la vive addirittura come un peso inutile, estraneo alle proprie reali esigenze. Invece voi rovesciate la prospettiva. E’ il lavoratore che è chiamato a costruire il suo percorso di autosviluppo. Come pensate di gestire questo cambio di paradigma?

Noi vogliamo costruire una “agile learning organization” e per centrare questo obiettivo abbiamo bisogno di persone sempre più consapevoli e resilienti, sempre più protagoniste della propria crescita professionale. È un percorso graduale che si sta consolidando negli anni e che nel 2020, anche in risposta all’emergenza COVID, ci ha consentito di lanciare un’iniziativa di grande valore, anche simbolico: in aggiunta all’attività formativa “ordinaria”, abbiamo dato  la possibilità a tutti i dipendenti di poter dedicare un’intera giornata lavorativa ad attività di formazione e-learning, anche attraverso la selezione individuale dei corsi di cui fruire, nell’ambito di un’ampia offerta di contenuti formativi nella quale avevamo comunque elaborato alcune priorità, come quella legata al rafforzamento delle competenze digitali. Insomma l’organizzazione ti offre degli indirizzi ma ti chiede anche di essere autonomo nel costruire il tuo percorso di formazione. 

E le persone come stanno reagendo? Passare da un “palinsesto imposto” ad un modello di formazione che mette al centro autonomia e responsabilità individuale non può essere destabilizzante?

È senz’altro un percorso lungo, come qualsiasi percorso che richiede un cambiamento culturale e di approccio all’interno di una grande organizzazione, nel quale vedo due principali fattori critici di successo:

1) la gradualità ed il bilanciamento: tuttora noi ricerchiamo un mix tra autonomia della persona (con alcuni contenuti fruibili liberamente in qualsiasi momento) e guida dell’organizzazione (con contenuti e iniziative definite in logica top down perché ritenute prioritarie per la persona alla luce del suo ruolo e delle sue competenze attese);

2) la creazione di processi e strumenti, compresi quelli legati alla comunicazione interna, che riescano ad ingaggiare le persone con una proposta di soluzioni in grado di generare un effettivo miglioramento del loro modo di lavorare.

Qual è il tuo bilancio di un anno di remote working in una grande azienda italiana? Siamo diventati “migliori”? Siamo cambiati davvero?

Il mio bilancio, pensando alla mia esperienza all’interno di HERA, è senz’altro positivo, principalmente per due motivi:

1) eravamo pronti sia dal punto di vista culturale che da quello degli strumenti, grazie al percorso di cambiamento avviato da alcuni anni;

2) a partire da giugno 2020 (inizio della fase 2), abbiamo adottato un modello “equilibrato” che prevede almeno 3 giorni in ufficio e fino a 2 giorni in remote working, che ci consente di avere un ottimo bilanciamento, preservando al tempo stesso i vincoli/obblighi imposti dalle misure di sicurezza e dai protocolli anti-COVID tuttora in vigore.

In generale, la situazione è molto variegata: sicuramente c’è stata un’accelerazione “positiva” di alcuni trend già in atto e che in alcuni casi stentavano ancora a “decollare”, al tempo stesso in molti contesti il rischio è tuttora quello di una polarizzazione tra organizzazioni e persone più resilienti che avevano già creato i presupposti per affrontare efficacemente situazioni di “shock” (competenze digitali diffuse, smart working già a regime, organizzazione agile in grado di “ripensare” anche il business model, ecc.) e strutture e persone che non erano pronte e sono state penalizzate.

Le risorse umane riscuotono sempre più interesse tra i giovani che pianificano un futuro in azienda. Secondo il sentire comune chi lavora nelle risorse umane eccelle nella gestione delle relazioni e nel dialogo “diplomatico”. E’ uno stereotipo?

Senz’altro doti come l’ascolto, l’empatia e la cura costante del rapporto con le persone sono fattori critici di successo. Ma oggi non bastano, perché la sfida dei nuovi trend e delle competenze “del futuro” riguarda ovviamente anche il settore delle risorse umane: problem solving “critico”, resilienza e resistenza allo stress, creatività e innovazione sul fronte delle soft skills; competenze digitali e di gestione avanzata dei dati, conoscenza profonda dei processi di business e competenze sempre più avanzate sui processi HR sul fronte delle hard skills.

Lavori nel mondo delle risorse umane da ormai più di quindici anni. Quali sono i cambiamenti più importanti che hai riscontrato in questo lungo periodo? 

Tutti noi manager appassionati di risorse umane siamo diventati più centrali nelle organizzazioni, più “vicini” al business, più capaci di influenzare i processi aziendali e di essere coinvolti nella definizione delle strategie aziendali. Siamo ormai molto lontani da quella funzione che si limitava a “gestire le pratiche del personale”.

Fino a qualche anno fa i CEO che provenivano da un percorso nelle risorse umane erano rarità. In futuro accadrà sempre più spesso perchè le Risorse Umane nell’era della grande trasformazione digitale non sono più un “supporto al business” come si diceva una volta, ma saranno sempre di più, al di là degli slogan, “al centro del business”.