Uno psicanalista sguazzerebbe nell’analisi delle possibili associazioni tra la figura del genitore e la figura del capo.

Tu sei una mia “creatura”, ma anche una mia responsabilità, ma anche il mio potenziale erede, ma anche una mia costante preoccupazione. Sono frasi che potrebbe pronunciare un genitore, ma anche un manager rivolgendosi a quella che nel gergo aziendale viene definita “una sua risorsa.”

Sulla base della banale constatazione di questo collegamento concettuale si possono fare interessanti riflessioni anche molto concrete sul nostro essere “un buon capo”.

Si sente parlare frequentemente di manager vittime della cosiddetta ansia di controllo: “Stai facendo questo? A che punto sei? Attento all’aspetto x, mi raccomando. Hai già fatto y? Ricordati di z.” Verifiche continue dettate dalla sfiducia e dalla paura che accada l’irreparabile. Un po’ come accade nella dinamica genitore/figlio anche al lavoro questa tipologia di dialogo capo/collaboratore è spesso frutto di automatismi incontrollati. Tradotto significa che l’“aguzzino” non si accorge di esserlo. In altri casi se ne accorge, ma percepisce la necessità di questo tipo di approccio: “Non mi piace comportarmi così ma purtroppo se non controllo qui va tutto a rotoli”.

Questa dinamica tende ad autosostenersi. Se io controllo continuamente la tua performance tu ti sentirai depotenziato nella tua autostima, nella tua responsabilità e nella tua autonomia. Tenderai a non controllare o a non decidere non sentendoti all’altezza e/o considerando che c’è un sistema di controllo dall’alto che interverrà al posto tuo. Il tuo non controllare o non decidere o non intervenire porterà il tuo capo a convincersi che non può fidarsi e che dunque deve aumentare il livello di controllo. E’ un circuito vizioso che conduce allo stritolamento della persona coordinata. Gli esiti possibili sono due: l’annichilimento del valore della risorsa o la rottura traumatica del rapporto. In entrambi i casi un fallimento umano e professionale.

Un suggerimento molto concreto da prendere in considerazione per un capo è quello di allontanarsi fisicamente dalla postazione del proprio collaboratore. Può essere sufficiente anche un cambio di stanza, ma funziona meglio se ci eclissiamo del tutto, se cioè ci mettiamo nelle condizioni di non vederci mai durante la giornata a meno che non vogliamo deliberatamente farlo. In questa prospettiva lo smartworking non è necessariamente un valore perché teoricamente potremmo comunque tormentare chi lavora con noi con mail, call e wapp a getto continuo.

I benefici di una “cura della distanza” sono enormi:

  1. Non vediamo in diretta i le imperfezioni e i limiti delle persone che coordiniamo, e dunque non ci sovraccarichiamo di ansia protettiva.
  2. Non veniamo distratti dal traffico e “rumore” dei piccoli imprevisti della quotidianità d’ufficio che ci fanno considerare problematici e meritevoli di un nostro intervento risolutore eventi che sostanzialmente non lo sono.
  3. Non cadiamo nella percezione ingannevole che senza di noi “sul pezzo” tutto è destinato ad andare a rotoli.
  4. Le persone che coordiniamo si sentono potenziate e quasi automaticamente adottano un atteggiamento più maturo, all’insegna del “e adesso me la devo cavare”.

Ovviamente trattandosi di un meccanismo di responsabilizzazione occorre lavorare sul monitoraggio. E’ fondamentale stabilire delle regole d’ingaggio e dei momenti di feedback continui e strutturati: “Controllerò questo, in questo modo, con questa cadenza”.

Tornando all’analogia da cui siamo partiti il buon capo è un genitore che esce dalla stanzetta del figlio ma lo invita di tanto in tanto a fare una passeggiata insieme. Meno tempo insieme ma di maggior qualità.