Nell’epoca in cui i consumatori comprano con un occhio sempre più sensibile ai contenuti etici incorporati nei prodotti si viene a creare una commistione sempre più forte tra marketing e “valori” (solidarietà, diritti, salute, ambientalismo, eccetera).

E’ bello lavorare in un’azienda che investe in “bene” parte dei propri profitti. E’ bello acquistare qualcosa contribuendo a migliorare il mondo. Tuttavia capita a tutti di chiedersi quanta autenticità ci sia in molte delle campagne di comunicazione che ci tempestano in tv e soprattutto sui social. Veniamo manipolati o “educati al bene”? Chi decide quali sono le cause giuste e quelle sbagliate? Con quale credibilità le aziende ci indicano modelli etici nel momento in cui stanno facendo palesemente marketing per fatturare di più?

Sono domande che meritano risposte complesse ma che comunque evidenziano delle contraddizioni. Contraddizioni che si notano ancora più chiaramente quando applichiamo questo meccanismo al self marketing, quando cioè è il singolo imprenditore o il singolo professionista a sbandierare ai quattro venti la sua donazione benefica o la sua scelta di campo etico-politica. C’è chi posta una foto per raccontare che ha piantato un albero per ogni cliente, chi scrive che lavorerà gratis per l’associazione x, chi confessa che donerà il proprio compenso per il progetto y a favore della fondazione z.

In tutti questi casi si usa spesso l’espressione “giving back”, restituzione.  Una formula nobilissima, spesso però utilizzata in modalità narcisistica e spudoratamente autopromozionale: “visto che io ce l’ho fatta (perché sono bravo) sento di dover restituire a chi non ce l’ha fatta”. Sulla carta è una dinamica molto virtuosa, siccome ho molto dono a chi non ha. Il problema è che quel dono nel momento stesso in cui viene pubblicizzato smette di essere un dono (un dono è sempre per definizione una rinuncia, un sacrificio, un gesto gratuito) e diventa un investimento perché produce un ritorno. Devolvere il mio cachet a una causa benefica o a una fondazione che magari porta il mio nome e raccontarlo al mondo diventa uno straordinario strumento per dare forza al mio brand e di conseguenza per aumentare i miei guadagni. Quindi non c’è nessun “giving back”, non sto restituendo, non sto rinunciando a nulla, sto usando il mio successo per dare visibilità alla mia charity e conseguentemente per procurarmi ulteriore successo.

Di fronte a questa banale osservazione di solito si dice “che male c’è?” Il fund raising benefico si fa così da sempre in tutto il mondo. Le persone di successo mettono mano al portafoglio e con il loro carisma sponsorizzano le buone cause, diventando ambasciatori del bene, spingendo altri a contribuire. L’importante è che alla fine i soldi arrivino dove devono arrivare, a prescindere dal nome del finanziatore o dai motivi per cui è arrivato il finanziamento. Seguendo questo ragionamento se tutti avessero una fondazione attraverso cui fare self marketing il mondo sarebbe un posto migliore: ti uso ma ti faccio vivere. Faccio del bene agli altri e faccio del bene a me stesso, tutti felici.

C’è qualcosa di invincibile in questo ragionamento, eppure in un’epoca in cui viene esaltato il valore dell’autenticità forse possiamo essere più precisi nel dare un nome alle cose, evitando di mescolare le valutazioni etiche da quelle di merito (quanto vale una persona o un prodotto). Un’azienda che decide di raccontare il proprio impegno sociale non è migliore di una che non lo fa o che non è impegnata. Ha semplicemente optato per una diversa strategia di comunicazione. Un manager che condivide il video del proprio servizio di volontariato non è una persona migliore di chi non lo fa (il video o il volontariato). Ha semplicemente optato per una diversa strategia di comunicazione. Senza grande fantasia lo definirei marketing benefico. E’ beneficienza ma è anche marketing. Chi lo fa aiuta il mondo ma non è né un eroe né un filantropo. Infatti per accedere a queste nobilissime “categorie” i nostri doni dovrebbero essere necessariamente silenziosi e accuratamente nascosti.

Alla fine anche per i non credenti le parole del Vangelo su questo tema possono essere di grande ispirazione: “Quando digiunate, non abbiate un aspetto malinconico come gli ipocriti; poiché essi si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano…Ma tu, quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non appaia agli uomini che tu digiuni.”

Chissà che in futuro noi consumatori non diventeremo così esigenti e attenti alle manipolazioni da pretendere che chi ci vende qualcosa sia non solo impegnato nelle buone cause ma anche capace di non trasformare questo impegno in una vetrina pubblicitaria.